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È la visibilità, bellezza!

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L’idea della visibilità, del vedere e dell’essere visti, se analizzata in termini distopici (Panopticon, Grande Fratello) o in termini di selfie e/o pov shot, rischia di essere ridotta unicamente ad aspetti negativi e di infettare il discorso intorno alla visibilità stessa.

La visibilità è in realtà un aspetto intimamente positivo e propositivo, e lo è per tanti motivi. Ma forse per comprenderne appieno il significato può essere necessario distaccarsi per un attimo dall’immagine, dalla figura, dal suo uso spesso distorto, fuorviante o strumentale e sforzarsi invece di comprendere che cosa significa vedere e, soprattutto, quali sono le caratteristiche del visibile e come fare a vederlo.

Occhi che vedono

Vedere: la visibilità dipende dalla nostra capacità di vedere, è un aspetto della realtà intimamente legato a chi guarda piuttosto che a chi mette in mostra. La visibilità, per Calvino, è un artificio creato sì dall’autore ma in favore del lettore.

Dobbiamo fare forse due diversi ragionamenti su questo tema: il primo è legato all’importanza del vedere, il secondo al suo strumento principe: l’occhio. Partiamo da quest’ultimo: penso che sia la base per comprendere quanto l’azione del vedere sia importante in un sistema in cui esiste la vita (presto ne sapremo di più, ma sembra plausibile pensare che anche i marziani abbiano gli occhi):

“Quando Charles Darwin lavorava alla sua teoria della selezione naturale, era tormentato dall’idea dell’occhio: non riusciva a spiegarsi come avesse potuto evolvere in fasi distinte, perché retina, lenti e pupilla apparissero così perfettamente finalizzate a integrarsi in un tutto, e fossero così inutili se non nel loro insieme. I critici della teoria dell’evoluzione di Darwin, all’epoca, consideravano l’occhio un miracolo. Ma i miracoli, per definizione, accadono una volta sola. Né Darwin né i suoi critici potevano darsi pace del fatto che quell’occhio simile a un apparecchio fotografico — miracoloso o meno che potesse sembrare — avesse avuto, nel corso della vita terrestre, non già un solo stadio evolutivo, bensì sei. La notevole architettura ottica di una “camera oscura biologica” si ritrova anche in alcuni polpi, lumache, anellidi marini, meduse e ragni. Queste sei linee di discendenza di creature non imparentate fra loro hanno in comune solo un lontano antenato cieco, per cui ciascuna di esse ha sviluppato quella fantastica dotazione lungo un proprio percorso. Ognuna delle sue sei manifestazioni è un risultato stupefacente; agli esseri umani, dopo tutto, ci sono volute parecchie migliaia di anni per mettere insieme il primo occhio fotografico artificiale.”

Kevin Kelly  –  Quello che vuole la tecnologia, 2012.

Chiarito dunque che la vita sulla terra è per molta parte legata al vedere, non è faticoso differenziare l’attività del vedere dalle tante altre legate all’uso dell’occhio: guardare, osservare… È certo che nel vedere vi è qualcosa di più, vi è un riconoscimento di un qualche tipo, un match tra ciò che stiamo osservando e qualche cosa che conosciamo o che immaginiamo e le due cose si incontrano, generando probabilmente una nuova visione, un qualche cosa che prima di essere visto non esisteva, ma che comincia a esistere e a essere riconosciuto nel momento in cui si palesa ai nostri occhi. La visibilità è la capacità di creare un qualche cosa in grado di generare questo processo, di catturare la nostra attenzione mentre ci guardiamo intorno e di farci passare dal semplice guardare alla più prolifica attività del vedere:

“La chiave è questa: guardare….
Guardare / osservare / vedere /immaginare / inventare / creare”.

Le Corbusier  –  Carnet T70, 1963

L’importanza di vedere gli altri e di essere visti, ovvero della trasparenza

La questione del panopticon ha in realtà una doppia faccia. L’aspetto distopico del luogo in cui la privacy è negata e dove è possibile in ogni istante monitorare da alcune posizioni privilegiate le attività di ciascun abitante di quel luogo, è sicuramente uno dei due aspetti. Ma ve n’è anche un altro: quello per il quale anche il controllore è posto sotto lo sguardo continuo dei controllati. Le città e i paesi sono state per moltissimo tempo un luogo di questo genere (molto meno estremi si intende, ma anche molto più funzionali): un luogo all’interno del quale tutti guardavano tutti e contemporaneamente tutti venivano visti, generando però non un senso di oppressione da casa del Grande Fratello, ma piuttosto un senso di sicurezza e di condivisione dello spazio abitato che in molti quartieri delle città contemporanee è andato perso. Questo processo è ben descritto da Jane Jacobs nel suo monumentale Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane del 1961:

“[…] L’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città […] è mantenuto soprattutto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi.”

Jane Jacobs  –  Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, 1961.

Lo stesso identico principio vale anche per lo strutturarsi delle relazioni umane tra abitanti, tra abitanti ed estranei e per il controllo di ciò che succede in strada (per esempio dei bambini che giocano): il concetto è che le persone devono prendersi un po’ di responsabilità nei confronti della cosa pubblica anche per gli altri, anche se non hanno legami tra loro. Questo avviene ovviamente se si osserva ciò che succede e, se si vede qualcosa di anomalo, si interviene.

Se pensiamo poi al concetto dell’accountability, per il quale bisogna rendere conto continuamente, in quanto delegati da altri, circa la propria attività, capiamo immediatamente che uno dei pilastri (positivi) della vita pubblica e della società attuale è la visibilità, ovvero la possibilità di vedere che cosa fanno gli altri. Ovvio che il limite tra vita pubblica e privata è labile, ma sia chiaro che essere visti è una scelta, si può anche evitare di essere visti (sempre di visibilità trattasi, di visibilità nulla ma comunque visibilità), ma la vita pubblica prevede l’essere visti così come il vedere gli altri (nella vita privata sacrosanta è la privacy e con le unghie e coi denti va difesa, ma se poi un* vuole consumare la fotocamera dello smartphone a suon di selfie son fatti suoi).

(In questo esempio non è compresa la vicina di casa che non si fa i fatti suoi, consideriamola come l’eccezione che conferma la regola).

Vedere attraverso altri occhi

E finalmente arriviamo al web e a quanto il web ci permette di vedere. Un esempio su tutti: Google Maps e il simpaticissimo Street View.

È possibile aver visto un sacco di volte gli Stati Uniti e allo stesso tempo esserci stati anche una volta sola facendo scalo, magari per meno di dodici ore. Si possono fare delle gite pazzesche in Arizona e South Dakota, poi in Canada e nella regione dei grandi laghi, poi New York, San Francisco e tanti altri posti. Probabilmente non è che possa essere un’esperienza particolarmente completa, dal momento che non si parla con nessuno, non si sente nessun rumore, non si gusta nessun piatto tipico, non si apprezza l’odore della natura selvaggia né tantomeno quello delle grandi metropoli dense di umanità. Si vede giusto un pochetto com’è la situazione. Neanche troppo ma comunque, se permettete, sembra piuttosto figo.

L’enorme mole di dati e di servizi che vengono prodotti da e per il web ha parecchio a che fare con la visibilità in questi termini. Tantissimi documenti d’epoca (fotografie, disegni, video) sono sparsi per la rete e non aspettano altro che essere visti. Certo che in alcuni casi la visione è superficiale: così come tendiamo a ridurre la comunicazione a 140 caratteri, tendiamo anche a ridurre il tempo che ci prendiamo per guardare e osservare un qualche cosa. Col rischio di vedere poco o niente. Ma è indubbio che le possibilità in questo senso siano esponenzialmente aumentate rispetto all’epoca pre-web.

Anche qui, non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirselo, il filtro la fa padrona: vedere con gli occhi di altri significa vedere informazioni prefiltrate da altri. Una parte dell’esercizio “guardare, osservare, vedere, immaginare” è già stata svolta a monte da qualcun altro, sulla bontà dell’operazione sappiamo poco, possiamo solo discernere circa la bontà del risultato. Vedere e riconoscere tali filtri è l’esercizio che dobbiamo compiere per non ridurre le nostre visioni a dei semplici gesti meccanici.

Visioni condivise

Vedere con gli occhi di altri è ben diverso dal vedere con gli altri, dal vedere insieme. Vedere insieme potrebbe ad esempio essere riportato alle esperienze della diretta streaming, in cui effettivamente tutti quanti guardiamo qualche cosa e poi insieme andiamo a commentare in tempo reale (ad esempio su Twitter con largo uso di hashtag). Paradigmatico in questo senso il Red Bull Stratos che, con il lancio nel vuoto di Felix Baumgartner da circa 40000 metri, è stato seguito in diretta su Youtube da circa 8 milioni di persone contemporaneamente il 14 ottobre 2012 (record assoluto).

Allo stesso modo guardiamo una partita dei mondiali o le votazioni in parlamento e commentiamo su Twitter.

Potrebbe però essere utile ripensare al mantra che ci ha accompagnato dall’inizio: “guardare, osservare, vedere, immaginare”. Può essere infatti che vi siano in realtà degli esempi più efficaci di quelli di Stratos. L’attività di comunicazione che @Astrosamantha ha fatto durante la sua missione sulla Stazione Spaziale Internazionale penso andasse esattamente nella direzione del mantra iniziale. Samantha Cristoforetti ci ha permesso di vedere, vedere qualche cosa che difficilmente si può vedere altrimenti. Abbiamo visto con lei, perché questo permetteva il format comunicativo che ha scelto per mostrarci ciò che faceva. Ma soprattutto non è stata una visione sterile: Astrosamantha ci ha permesso di immaginare un probabile futuro dell’umanità attraverso la visione della sua attività. Ha generato nuove visioni, ancora più fantastiche della visione di un astronauta. Ha riflesso il nostro stesso sguardo (nostro in quanto essere umani) e del pianeta nel quale abitiamo attraverso le sue fotografie e i suoi video. Ha rappresentato un’intera specie (quella umana si intende) nello spazio, non perché nello spazio ci fosse lei e non noi o perché lei è umana quanto noi, ma perché ha saputo generare visioni condivise.

In linea con quanto scritto in apertura sul lato positivo della visibilità e sulla generazione delle visioni, il discorso potrebbe anche chiudersi qui. Ma qui si apre in realtà un nuovo capitolo, ovvero:

Visioni condivise parte seconda

Nel filone delle visioni condivise, a rischio di prendere una cantonata pazzesca, dovremmo forse infilarci la web serie La scelta di Catia, proposta qui sopra. Non è questo il luogo per giudicare la bontà o meno dell’operazione mediatica proposta da Corriere della Sera, Rai Fiction e la Marina Militare Italiana. C’è chi l’ha già fatto. Ma avendo il tempo di guardarla, è lecito pensare che si rimarrà piuttosto colpiti dalle immagini riferite al naufragio dell’11 ottobre 2013. Sono immagini riprese dalla camera montata su uno dei caschetti dei militari, le poche o pochissime che abbiamo di quel giorno.

Provando a generalizzare (e rischiando, ovviamente), si potrebbe affermare quanto segue: nel momento in cui una visione riesce ad uscire dai limiti che l’autoreferenzialità impone (evidente nei selfie, ad esempio) e a innescare un vero processo di visione attiva (che segue il mantra enunciato all’inizio) in un numero elevato di persone (possiamo dire più o meno tutti quelli che hanno una connessione a internet) si crea una visione condivisa, una visione capace di generare un riscontro (emozionale, intellettuale, politico) anch’esso condiviso.

Tale riscontro può essere positivo o negativo, lo stesso per tutti o diverso per ognuno, ambiguo o chiaro, giusto o sbagliato. La visione di partenza è comunque filtrata (dai media, da chi la riprende, da chi la commenta) per cui in realtà il riscontro può essere imprevedibile. Ed è per questo che il discorso sulla visibilità è un discorso difficile, pericoloso, a volte fuorviante e comunque facilmente strumentalizzabile (pensiamo all’effetto Je suis Charlie oppure all’effetto della visione di Aylan sulla spiaggia).

Il gioco, anche se di gioco non si tratta, sta proprio nell’imparare sempre di più a usare la visibilità (come ha fatto Astrosamantha e come predica Calvino) al fine di generare visioni positive e immaginifiche. Tuttavia consiste anche nell’imparare a gestire visioni meno positive ma altrettanto potenti le quali, nostro malgrado, sono inevitabili.


Scritto da Andrea Rosada | @caporosso