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Sette cose (o più) da sapere sull’esattezza (o su Rocco Siffredi, che non è esattamente lo stesso, ma è divertente)

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ATTENZIONE SPOILER!
Rocco Siffredi e l’immagine ammiccante di Milo Manara in copertina non saranno argomento di questa puntata pilota sull’Esattezza, li abbiamo messi solo per tentare di avere più clic. Vi diremo com’è andata.

0 E 1, DIFFICILE SBAGLIARSI


Dal momento che il digitale si basa su di un sistema binario, popolato da 0 e 1 (vero o falso, bianco e nero, acceso spento…), potremmo quasi dire che è manicheo e forse non è un caso che primo fra tutti a teorizzare la forma embrionale del linguaggio binario sia stato un vescovo spagnolo del XVII secolo. Ma come si passa da questa enorme semplificazione all’immensa complessità che ci circonda e che fatichiamo a capire e gestire? Siamo abituati a pensare alla macchina come infallibile e questo dovrebbe essere vero anche per il suo linguaggio, la sua struttura; il sistema binario è in fondo solamente una derivazione di quella che è per eccellenza la scienza esatta: la matematica. Ma è poi vero? Anche partendo dal presupposto che la matematica abbia natura infallibile (posizione per altro nei secoli discussa e discutibile), l’esattezza che comunque ne scaturisce potrebbe essere solamente fine a se stessa e quindi in realtà inutile allo scopo dell’utente se non nel rassicurare le sue certezze. Per intenderci: l’algoritmo che usa il motore di ricerca, esatto per sua natura, può effettivamente portarmi dove voglio io? È evidente che spesso non è così perché la sua esattezza è minata dai contenuti, la strada quindi potrà anche essere matematicamente esatta (o più probabile) e calcolata in base ai più sofisticati procedimenti di programmazione, ma questo non potrà mai evitarmi di perdere la via.

LA MISURABILITÀ CONTRO TUTTI
Si misura tutto (lo dice anche Calvino) con estrema precisione, ma l’incertezza e l’inaffidabilità sono i primi pensieri che probabilmente vengono in mente quando ci riferiamo a Internet e all’esattezza. Google ci dice in quanti secondi esatti carica i suoi risultati, Twitter o Facebook ci propongono nuovi contatti misurando e analizzando esattamente il nostro comportamento in rete (che poi è lo stesso principio attraverso il quale ci propongono prodotti in vendita). Ma un qualunque procedimento che si basi su dati reali e veri porta a dei risultati esatti?
A molti sarà successo quello che è capitato ad Andre, magari mentre cercavano altri oggetti o notizie su altre squadre di calcio: “Stavo cercando una betoniera l’altra mattina, ma vedere nel pomeriggio la pubblicità di Adwords sul sito dei tifosi del Toro forse era un po’ troppo. Avevo bisogno di calciomercato in quel momento, non più di betoniere!” “Secondo me Andre, hai bisogno di un’altra squadra di calcio”.
Il suggerimento all’acquisto era esatto, ma al contempo non lo era affatto. La realtà è che il procedimento può essere inappuntabile, funzionare alla perfezione, risultare esatto in termini numerici e quantitativi, ma l’esattezza può finalmente non essere una delle sue caratteristiche.

L’ESATTEZZA PREVEDE CONOSCENZA
Calvino scrive “Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione”, che sarebbe come dire “Io non parlo di cose che non conosco”. Per sostenere un’idea, al riguardo devo conoscere tutto e il suo contrario: ottut. Altrimenti ha ragione Nanni

ASPIRIAMO ALL’ESATTEZZA
Se l’esattezza non è raggiungibile perché è impossibile sapere tutto e ottut, allora dobbiamo tendere verso essa come fosse un limite irraggiungibile. La sfida più grande del web è rendere possibile l’impossibile, a questo concetto noi ci siamo abituati molto in fretta e siamo sempre pronti a nuove sfide offerte da gadget sempre più sofisticati e applicazioni innovative. In questo modo forse abbattiamo l’idea che esista qualcosa di impossibile perché pensiamo che il web consenta di vivere nell’indefinito, ovvero che ci lasci la sensazione illusoria ma piacevole di sguazzare nell’illimitato. Forse è proprio questo che piace tanto all’essere umano.

GLI STRUMENTI DEL WEB NON SONO ESATTI
Quando verifichiamo qualcosa su Google, la risposta offerta è quella che ha il ranking migliore, ma non è detto che sia quella più giusta. Nel caso per esempio delle notizie, chi si preoccupa del loro aggiornamento? Il caso Gonzales di qualche tempo fa ha aperto un dibattito sul quale sono moltissimi gli interrogativi: sicuramente abbiamo bisogno di qualcuno o qualcosa che cerchi per noi nell’esteso mondo digitale, ma necessitiamo anche di qualcuno che, a partire dalle nostre tracce, pensa di offrirci quello che noi cerchiamo?

“Credo che i nostri meccanismi mentali elementari si ripetono dal Paleolitico dei nostri padri cacciatori e raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana. La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.” (Esattezza, Lezioni americane).

I sevizi digitali hanno ribaltato la questione in un modo in cui Calvino non poteva immaginare: non sono più le cose che lasciano tracce sulla superficie, siamo noi che lasciamo le tracce che vengono usate per trovare cose che non hanno ancora lasciato traccia. Per questo motivo certe volte sembra che Google possa indurre le persone alla perversione, in quanto propone ciò che non cerchiamo, ma che comunque potrebbe interessarci. Come ci riesce? Con i suoi algoritmi che accorpano i dati di persone simili arrivando a ipotizzare quello che vogliono.
Ancora una volta l’esattezza, intesa come la intende Calvino e quindi come direzione e non come assoluto, viene messa in discussione.

L’ESATTEZZA È UNA TANA DI UN CONIGLIO?
Qualche tempo fa abbiamo condiviso un articolo del New Yorker sui rabbit hole: in realtà il pezzo parla di come il significato dell’espressione inglese sia cambiato nel tempo e si sottolinea come oggi venga usata per indicare quei buchi neri di Internet in cui un utente si ritrova mentre segue una traccia che lo interessa e che invece lo conduce da tutt’altra parte facendogli perdere tempo senza portarlo a una conclusione. Le funzioni del web hanno involontariamente creato un nuovo personaggio leggendario: una crasi tra l’Alice di Carroll e il Pollicino di Perrault. Questo nuovo personaggio ha però perso l’incoscenza di Alice e oltretutto spesso non si accorge neanche di lasciare delle tracce. Considerando quindi che le tracce sono quelle che lasciamo noi, siamo noi a cadere nelle tane di coniglio o invece è il coniglio che ci spinge dentro? Questo stravolgerebbe il concetto di serendipità, cioè il trovare o scoprire qualcosa per caso o mentre si cercava tutt’altro, perché sarebbe un meccanismo pilotato da chi raccoglie le nostre tracce, quindi la felicità provata per la scoperta sarebbe frustrata o comunque non genuina. Inoltre spiega perché nel web le nostre posizioni si radicalizzano: quello che noi cerchiamo su Google o seguiamo su Facebook e Twitter è quello che ci piace, quindi leggiamo e sentiamo quello che già conosciamo e che ci permette di sapere che non siamo gli unici a pensarla in un certo modo. Inoltre la rete usa il caro detto “chi si somiglia si piglia” per suggerire un libro simile a quello che abbiamo appena comprato oppure un amico di un nostro amico. L’essere parte di questa comunità ci rasserena, ma allo stesso tempo ci rende fossili sulle nostre posizioni: diventiamo conservatori e poco propensi ad ascoltare opinioni diverse dalla nostra.

L’ECO E LA BUFALA: DUELLO IN CUCINA
Internet sembra il regno del sentito dire, delle previsioni errate e della notizia bufala e non solo. La mancanza di apertura verso le altrui opinioni ci rende ottusi; per dirla con un termine tornato in auge recentemente grazie a una dichiarazione di Umberto Eco, ci rende imbecilli. Ma in cosa consiste questa imbecillità?

“Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze” (Esattezza, Lezioni americane).

Si sente tanto parlare di come Internet abbia livellato il linguaggio delle persone, al punto da arrivare a trasformarlo in emoji. Mike Isaac sul New York Times sottolinea come su Instagram l’aumento dell’utilizzo delle faccine per commentare le immagini fosse strettamente legato alla diminuzione dell’uso di parole. Perché devo usare una parola, che magari non viene capita in altre lingue, quando un emoji arriva diretto a tutti 😉 ? Come ragionamento è impeccabile, ma senza dubbio non possiamo dire che l’epidemia pestilenziale prospettata da Calvino sia stata arginata. Se è vero che un emoji arriva prima (questo, tra l’altro, è tutto da dimostrare) è altrettanto vero che alla lunga l’essere umano si ritroverà senza parole.
Parlando in termini ancora più astratti sembra che tramite il web l’essere umano pensi di avere trovato un modo per non provocare più quelle scintille che nascono dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Ovvero preferire la semplificazione per evitare la complessità, da Calvino espressa nei termini del linguaggio ma che noi possiamo tranquillamente allargare alla condizione dell’umano in generale. È la semplificazione, l’approssimazione, la vaghezza, la mancanza di approfondimento che ci rende imbecilli e da cui scaturisce la bufala, la mistificazione, la malainformazione. Siamo convinti di aver bisogno di informazioni sempre nuove, fresche, non ci interessa che siano vere o false, ci interessa che possano essere consumate. L’esattezza non è la garanzia del vero o del falso, del giusto o dello sbagliato, ma realizzare una bufala esatta è molto più difficile che realizzare una cronaca esatta.

L’ESATTEZZA È UN’APPROSSIMAZIONE
Quel che noi riteniamo esatto è misurato con strumenti che intrinsecamente sono approssimativi. O meglio sono delle convenzioni che puntano a essere economiche in termini di fatica per l’essere umano e che sono accettate culturalmente: ci basiamo sul sistema decimale perché abbiamo dieci dita delle mani; siamo abituati ormai alla settimana di cinque giorni lavorativi e due di riposo, ma a qualcuno non sta più bene e vuole abolirla; i numeri e le lettere dell’alfabeto sono forme legate al luogo e al periodo storico in cui vengono concepite e diventano condivise solo se chi ne fa uso è sufficientemente forte o prestigioso da imporle. Questo vale anche per la tecnologia web, con un’aggiunta: arrivare prima. Perché usiamo Google e non Yahoo o Duck Duck Go per le nostre ricerche? O Whatsapp e non Telegram per i messaggi? Arrivare prima degli altri sembra molto più importante della qualità e delle prestazioni. Nel confronto con Whatsapp, Telegram vince per reattività, privacy e prezzo (è veramente gratuito), eppure, per quanto in crescita, resta ancora molto indietro per numero di utenti attivi al mese. Chi copia, magari nel tentativo di migliorare i difetti e avvicinarsi all’esattezza, paga ancora lo scotto di essere visto come un truffatore privo di idee proprie. Tuttavia la scoperta dei neuroni specchio ci dice che copiare è alla base dei nostri comportamenti e, a pensarci bene, Internet è nato proprio per condividere la propria conoscenza affinché altri la usino per raggiungere nuovo sapere. Qualcuno considera addirittura il copia e incolla un simbolo sacro e religioso e forse vale la pena citare ancora Umberto Eco che, in virtù del suo cognome, ripete da un po’ di tempo che “Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno”1.


(1) Umberto Eco: “Con i social parola a legioni di imbecilli”, La Stampa, 10/06/15.