VISIBILITÀ
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Tre cose (più una) che dovete sapere sulla Visibilità (se poi sono meno non preoccupatevi, se sono di più selfie contest, alè).
PREMESSA: L’ELEFANTE #
L’elefante è quel mammifero noto a tutti, con la proboscide che funziona un po’ da naso e un po’ da mano e con una memoria prodigiosa. È un’animale che attira molta curiosità su di sé per il fatto che, nonostante la usa imponenza, sia tutto sommato calmo, riflessivo e docile.
La sua immagine viene usata per costruire metafore molto efficaci. Per esempio ne Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, il protagonista, per capire che tipo di individui ha di fronte, mostra un disegno di un boa che digerisce un elefante (visto dall’esterno, disegno a sinistra). Poi, a chi guarda l’immagine chiede di descriverla e, deluso nel ricevere sempre come risposta “un cappello”, decide di isolarsi, restando fuori dal mondo che non è in grado di scorgere l’elefante dentro al boa (disegno a destra).
Questo elefante inghiottito è parente di altri due elefanti: il primo è quello che sta nel titolo di un film di Gus Van Sant del 2003, Elephant, basato sul massacro della Columbine High School in Colorado in cui due studenti armati irruppero a scuola e uccisero tredici persone più loro stessi. Alla base della scelta del titolo c’è il riferimento all’espressione inglese “avere un elefante in una stanza” che indica un problema evidente e impossibile da ignorare, ma che nessuno vuole affrontare. Il secondo è quello a cui si riferisce il linguista cognitivo George Lakoff nel suo libro Non pensare all’elefante!, in cui spiega l’uso e l’attivazione dei frame nel linguaggio politico americano. Per capire il senso di quel che spiega Lakoff è sufficiente chiedere a qualcuno di non pensare a un elefante: in quell’istante inevitabilmente il pachiderma diventerà l’unica fissazione nella testa del vostro amico. In pratica, la negazione di un’idea richiama e rafforza la stessa struttura concettuale di quell’idea; quindi, se un politico vuole vincere le elezioni, non deve limitarsi a controbattere e negare quanto detto dal suo avversario, ma deve creare, attraverso il linguaggio, un immaginario che evochi concetti e idee affini ai propri valori, che si spera siano diversi da quelli del suo avversario. Per questo lo smacchiamento del giaguaro non ha portato i frutti sperati.
Nei prossimi episodi di questo Pilot (sì, abbiamo deciso di serializzare anche il Pilot) intrecceremo la visibilità spiegata da Calvino con il mondo digitale e l’elefante diventerà un utile filtro per spiegare quello che scriveremo. Per il futuro quindi ricordate che: ne Il piccolo principe l’elefante è totalmente invisibile, ma fondamentale (“l’essenziale è invisibile agli occhi”), in Elephant è visibile, evidente, ma tutti lo ignorano e nel caso di Lakoff è semplicemente evocato. Quale allora tra queste tre tipologie di elefanti è la più incisiva?
UNO. L’ELEFANTE INVISIBILE AGLI OCCHI E LA POTENZA RICOMBINATORIA DEL WEB #
La fantasia è una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli, divertenti.
Abbiamo già parlato di serendipità, ovvero la caratteristica del web di creare e di provocare nella nostra testa collegamenti che pensavamo inesistenti, dovuti al fatto che molto spesso ci imbattiamo in informazioni in modo casuale anche se l’informazione in questione risponde esattamente alle nostre necessità. Ma quello che ora ci chiediamo è se questo processo di creazione di collegamenti continuo e reiterato abbia effettivamente la capacità di produrre nuove immagini e soprattutto nuovi immaginari.
L’episodio del boa e l’elefante de Il piccolo principe è esattamente questo: la scoperta di un nuovo immaginario che prima si celava ai nostri occhi. Tuttavia non è detto che esso sia essenziale, anzi, spesso ci accorgiamo di scoprire tante inutilità di cui faremmo volentieri a meno; ma il fatto che esista, nel web più che altrove, la possibilità di trovare la figlia del fattore quando cerchiamo l’ago nel pagliaio, ci spinge a continuare a cercare, anche se non sappiamo quale sia la fonte di tutte queste informazioni. Calvino scrive che viviamo in un’epoca in cui “la letteratura non si richiama più a un’autorità o a una tradizione come sua origine o come suo fine, ma punta sulla novità, l’originalità, l’invenzione” e dove la fonte delle nostre ispirazioni è nascosta, se non del tutto, almeno in parte. Nel testo della lezione Visibilità cita uno studioso dell’intelligenza, Douglas Hofstadter, che usa la metafora dell’iceberg per esprimere questa idea. Anche il Web è in realtà un iceberg di cui noi conosciamo solo l’un per cento, la parte indicizzata da Google, che è comunque tantissimo. Il restante novantanove, detto deep web o web sommerso, è consultabile soltanto grazie a programmi specifici come Tor o simili.
La caratteristica principale di questa parte del web è l’anonimato degli indirizzi IP dei computer connessi, mantenuto grazie al fatto che i messaggi, prima di arrivare a destinazione, passano attraverso molti nodi in modo assolutamente casuale. Inoltre, un’altra differenza dal web emerso è che ogni messaggio viene criptato a più strati. L’anonimato, l’essere invisibile è sicuramente una risorsa importante per salvaguardare le identità degli utenti, soprattutto nel caso di attivisti politici che compiono attacchi contro governi repressivi, ma può essere una risorsa anche per chi ha scopi dichiaratamente criminali: vendere armi, documenti falsi, droga e altre nefandezze. L’argomento è tanto interessante quanto spinoso, il nostro consiglio è quello di continuare ad approfondire con due articoli che a loro volta sono ricchi di altri rimandi (insomma vi stiamo indicando un rabbit hole): uno più tecnico e un altro più divulgativo. Ciò che noi troviamo interessate del deep web è una certa purezza di principio (che per esempio si manifesta in una certa mancanza di fronzoli e ricami dell’impaginazione dei siti) che si rifà a un’idea del web più vicina a quella originale, ovvero un luogo di libero scambio di informazione e conoscenza in cui la sostanza ha nettamente più importanza della forma; in cui, per dirla con il piccolo principe, l’elefante è più importante del boa.
Se questa profondità crea un immaginario ambiguo, fenomeni diversi possono nascondere immaginari altri. Sicuramente un elemento da segnalare è quello degl’internet meme, che si basa fondamentalmente sulla cultura del remix, come ben spiegato da Lawrence Lessig: a partire da una immagine si creano una miriade di altre immagini analoghe e con significati vari; queste popolano le nostre bacheche Facebook o chat di Whatsapp e chiunque può crearne una. La potenza ricombinatoria della nostra fantasia, grazie a strumenti del genere, trova ampio successo e spesso viene usata per depotenziare in chiave ironica alcuni fatti o situazioni. Esistono però altri esempi, anche decisamente più seri e costruttivi, in cui un nuovo immaginario viene costruito collettivamente e in modo condiviso: Open Source For Cancer è stato un esperimento vincente all’interno del quale, partendo da un’immagine complessa come quella della malattia, sono state create una serie di immagini relative, le cure, che hanno permesso al promotore del progetto di guarire e allo stesso tempo di dare vita a un corpus di informazioni utili per chiunque ne avesse bisogno.
La capacità di vedere oltre il cappello, scorgendo l’elefante all’interno del boa, è sicuramente la facoltà di non fermarsi al dato di fatto. Ma esiste un’altra abilità, quella di usare l’immaginazione “come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere”. In fin dei conti Calvino sembra chiedersi: perché noi dobbiamo accettare che il boa ingoi un povero elefante e non una campana o un camper con dentro una famiglia in viaggio?
DUE. L’ELEFANTE DI CUI NESSUNO VUOLE PARLARE: LA SOTTILE LINEA TRA GUARDA ME (SELFIE) E GUARDA COME ME (POV SHOT), OVVERO COME NON LASCIARE NIENTE, MA PROPRIO NIENTE, ALL’IMMAGINAZIONE #
Quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la “civiltà dell’immagine”? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?
Colpisce sempre di più come il selfie sia diventato un genere narrativo a tutti gli effetti, con la sua microgrammatica composta da pose, boccacce, condivisioni con hashtag che sono vere e proprie frasi; con le sue situazioni straordinarie in cui è necessario marcare la nostra presenza: funerali, feste, eventi, luoghi particolari e famosi; e con l’arrivo di strumenti che ne migliorano le prestazioni: il selfiestick. Colpisce perché ormai non è più possibile trovare un ambito in cui il selfie sia fuori luogo: l’ultima tendenza a quanto pare è la #selfiedivorce, ovvero farsi un selfie dopo aver firmato il divorzio, come per dire “Noi stiamo bene, divorziare è cool!” e poi aggiungere un bello smile ;). Ma tutti ricordiamo ancora Obama al funerale di Mandela o Arisa seduta sul wc (lo spettacolo è orrendo, il link non ve lo mettiamo).
Ogni situazione, momento della vita, può essere ripreso attraverso un selfie che, di fatto, non racconta nulla dell’ambiente intorno a noi (in questo è molto diverso dall’autoscatto), ma mette in primo piano la nostra presenza, la nostra immagine o facciona. Probabilmente i selfie, come anche tutte le altre espressioni di noi stessi sui social network, sono un modo per evitare di raccontare il nulla dei giorni ordinari, cioè la maggior parte del nostro tempo. Offrire risalto allo straordinario non significa forse mettere in secondo piano la quotidianità che può avere ben poco da raccontare?
Dall’altra parte, all’opposto del selfie, troviamo il POV shot (nel link, occhio allo schemino), ovvero il mostrare agli altri quello che vediamo noi. Inizialmente, grazie alle telecamere montate sui caschetti, venivano immortalate alcune discese roccambolesche sulla bici, oppure sport ad alto contenuto di adrenalina. Ma se avete bazzicato su Periscope, vi sarete già resi conto di quanto possa essere noioso vedere la vita degli altri in diretta. Forse il lusso di mostrare se stessi nella quotidianità potrebbe essere riservato solo alle persone famose, la cui vita privata ha sempre destato grande interesse. Solo loro possono fotografarsi in situazioni ordinarie perché la straordinarietà è in loro stessi, nella loro immagine (vedi Gianni Morandi che fa giardinaggio, sbuccia i piselli o chissà cos’altro).
Un corto circuito potentissimo succede invece quando i personaggi famosi scattano selfie in situazioni straordinarie: la notte degli Oscar, Totti nel derby, il Papa con dei ragazzini… Se sono loro che ci fanno vedere il loro punto di vista la nostra immaginazione può arricchirsi di particolari: quali sono le emozioni prima dell’ingresso in campo per una partita importante? Cosa vede un attore durante le riprese di un film? Per loro diventerebbe una sorta di backstage perenne e forse, per non svelare i trucchi (avete visto The Prestige di Nolan?), si creerebbe una narrazione della narrazione che potrebbe essere a sua volta manipolata creando un ulteriore corto circuito (quello che in pratica succede in Birdman quando alla fine non distinguiamo più realtà, finzione e immaginazione).
In caso contrario il rischio è che, per rendere interessante il proprio punto di vista, ci si debba inventare qualche cosa di forte o estremo. È il caso di molti adolescenti che filmano le loro imprese e, all’eccesso, di Vester Flanagan che è tristemente diventato famoso per essersi ripreso con la telecamera del suo cellulare mentre in Virginia uccideva due ex colleghi (oltre ad averlo fatto in diretta TV per avere entrambe le prospettive). Palesare il proprio punto di vista non è stato il motivo che lo ha spinto a compiere un duplice omicidio, ma indubbiamente, da esperto del settore giornalistico, sapeva che in quel modo il suo gesto avrebbe avuto una visibilità fuori dal comune. A vedere quelle immagini e il modo in cui Van Sant segue i protagonisti con la macchina da presa in Elephant vengono i brividi. L’atto di Flanagan ha riaperto un dibattito mai veramente chiuso tra chi sostiene che sia giusto rendere pubbliche certe immagini e chi no. Tra chi sostiene che l’urgenza della Storia sia più importante della sensibilità delle persone.
Una volta la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e un ridotto repertorio d’immagini riflesse dalla cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo.
Questa stessa diatriba si è poi ripresentata qualche tempo dopo, in forma ancora più tremenda, nel caso della foto del bambino siriano. Solo allora l’elefante in salotto è diventato visibile, forse perché s’è mosso e ha rotto irrimediabilmente qualcosa a noi molto caro.
TRE. L’ELEFANTE NEGATO MA DIFFUSO. NON POSSO SCEGLIERE SE VEDERE O NON VEDERE QUALCOSA PERCHÉ NEL WEB TUTTO È IN MOSTRA #
Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini.
Difficile non aver visto la foto del piccolo Aylan Kurdi, bambino siriano di tre anni morto nel tentativo di scappare dalla guerra. Attraverso i social media e i media tradizionali l’immagine di questo piccolo bambino senza vita è circolata sui dispositivi mobile e sui PC delle persone in gran parte del mondo. La reazione è stata di indignazione per quanto sta succedendo in Siria da parte dell’opinione pubblica e numerosi politici hanno abbandonato le proprie posizioni per aprire a discorsi di accoglienza e aiuto alla popolazione in fuga dalla guerra. Possibile, però, che tutto questo sia partito dopo una fotografia? Possibile che l’opinione pubblica e i politici non sapessero nulla delle morti di tanti altri migranti? E allora perchè è stata utilizzata quell’immagine per dare il via ad una politica differente, almeno sul piano dell’accoglienza dei migranti?
L’immagine, escludendo a questo punto ogni giudizio morale, sembra diventare uno strumento nelle mani di qualcuno per poter raggiungere determinati obiettivi. Nel caso di Aylan l’obiettivo è certamente “positivo”, ma in tanti altri casi le immagini vengono usate per spostare l’opinione pubblica verso obiettivi meno nobili. Prendiamo ad esempio il caso di Matteo Salvini e il suo utilizzo delle immagini. L’11 settembre pubblica una foto di alcune persone immigrate dall’Africa con il commento “Ieri hanno bloccato Macerata…Profughi?”. L’immagine non è presa a caso. Rispetto alle foto che siamo abituati a vedere di chi emigra, queste persone sono ben vestite, uno sta fumando, e un altro ha delle cuffie al collo. Chiaramente questa immagine non combacia con lo stereotipo diffuso del migrante… E Salvini cavalca l’onda. Ma perché? Perché il primo commento al suo tweet dice “Ben vestiti, con sigarette e smartphone…ma quali profughi d’Egitto???”. L’immagine ha un grosso potere che i social media e i dispositivi mobile contribuiscono ad amplificare.
Quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la “civiltà dell’immagine”? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate? Una volta la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e un ridotto repertorio d’immagini riflesse dalla cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo.
Qui Calvino è molto duro nei confronti della società dell’immagine. È forse possibile che si stia sviluppando una società dell’immagine ancora più estrema di quella di cui parla Calvino. In un certo senso si ha l’impressione che nel digitale, in particolare sui social media ma non solo, la nostra identità sia stata confusa con l’immagine. Non solo le foto, ma i video, i commenti, i post… Tutto risponde ad una domanda: Che tipo di immagine ho di me? Che tipo di immagine gli altri hanno di me? Che tipo di immagine penso/voglio/spero gli altri abbiano di me? L’immagine domina e ci domina. Ma in questo modo l’immagine, facilmente manipolabile, è spesso anche presa dentro a immagini collettive create ad arte, guadagnando in consistenza, in senso fisico e perdendo in leggerezza.
Se immaginare equivale a toccare ciò che è in potenza e virtuale significa “ciò che è in potenza ma ancora non è”, possiamo dire che immaginare è diventato toccare ciò che ancora non è, ovvero toccare il virtuale. In pratica stiamo tentando di toccare il virtuale trasformandolo in reale, senza renderci conto, però, che così escludiamo tutte le possibilità che l’immaginazione ci offre. Abbiamo già parlato di selfie, ma questo articolo trovato su Vice dà un’idea ancora più evidente di come il valore dato alle immagini postate sui social network abbia già sfondato i confini del virtuale per imporre la sua gerarchia nel reale.
Ormai così pervasive le immagini sono diventate sfondi alle nostre vite (reali o virtuali) ed è difficile negarle, perché ci colgono nel nostro intimo senza che noi ce ne rendiamo conto e perché ne siamo attratti per la loro immediatezza e il loro essere universali. Il bambino sul bagnasciuga ne è un valido e triste esempio: il meccanismo che ha generato è stato un batti e ribatti di sensazioni contrastanti tra chi discuteva se fosse il caso di pubblicarla o no; e se anche qualcuno avesse deciso a priori di non vedere quella scena perché riteneva sufficienti le descrizioni e i commenti, non avrebbe potuto salvaguardare i propri occhi in nessun modo. Ma allora la libertà di non vedere dov’è? Dov’è finito lo spirito di autoconservazione e autoprotezione che ci permette di custodire la nostra immaginazione? La nostra memoria visiva è diventata un campo aperto in cui può entrare di tutto e tutto si confonde con le nostre esperienze dirette al punto che quel bambino diventa il nostro bambino. E, come con l’elefante, diventa impossibile negarlo perché ormai ha attivato uno scenario profondo di emozioni che ci hanno segnato; ma fino a quando?
IN DIFESA DI MISS ITALIA
“Lo vedete questo?”. A Lisbona, il ponte Vasco da Gama attraversa il fiume Tago ed è lungo quasi 18 km. Le vittime dell’attentato di Madrid sono state 191. La magnifica Laurel Halo è nata nel Michigan ma la sua etichetta discografica è inglese. Svegliarsi alle 5.30 di mattina pare faccia abbastanza bene.
SOGNO DI DIVENTARE INVISIBILE E DI NON ESSERE SU PEEPLE
Che cosa fareste se per un giorno, un giorno soltanto, poteste diventare invisibili? Se vi stanno venendo in mente solamente pensieri osceni e non vi osate a rispondere perché state leggendo questo post in ufficio non vi preoccupate, possiamo chiederlo a Google.
È LA VISIBILITÀ, BELLEZZA!
L’idea della visibilità, del vedere e dell’essere visti, se analizzata in termini distopici (Panopticon, Grande Fratello) o in termini di selfie e/o pov shot, rischia di essere ridotta unicamente ad aspetti negativi e di infettare il discorso intorno alla visibilità stessa.
L'ARTE DI SCOMPARIRE O DEL SCEGLIERE QUANDO
Il titolo di questo post è lo stesso del saggio scritto da Pierre Zaoui ed edito da Il Saggiatore, semplicemente perché vorrei esattamente copiare parola per parola tutto quello che c’è scritto. Non solo perché la stesura dei concetti usa una prosa inappuntabile, ma anche perché è un libro che ogni politico incollato alla poltrona, ogni genitore troppo invadente nella vita dei figli, ogni essere pensante al comando di una qualunque istituzione (azienda, associazione, ente pubblico, teatro, museo, studio professionale…) dovrebbe leggere.
THE VISIBLE MAN
Per un attimo Kemp rimase in silenzio, fissando la schiena di quella figura, affacciata alla finestra. Poi si alzò, colpito da un pensiero, prese il braccio dell’uomo visibile e lo allontanò di lì per togliergli la possibilità di guardare fuori. L’uomo cominciò a parlare 1
«Avevo già lasciato la facoltà di Giurisprudenza - disse - quando ciò accadde.
VEDERE L'ORIZZONTE PER PRIA VOLTA
Vedere l’orizzonte per pria volta
rende la rossa emozione mitica,
e scorger la natura che ascolta,
selvaggia, inebriata e unica,