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Perché Gesù ha moltiplicato i pani e i pesci e non ha insegnato a pescare?

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Ciò avviene mediante lo sfruttamento del potenziale semantico delle parole, di tutta la varietà di forme verbali e sintattiche con le loro connotazioni e coloriture e gli effetti il più delle volte comici che il loro accostamento comporta. (Lezioni americane, p. 107)

Ho sempre pensato all’involontario umorismo delle lettere accostate insieme per formare delle parole e mi ha sempre incuriosito il fatto che due lettere messe vicine potessero essere paragonate al comico e alla sua spalla.


Zuzzurro e Gaspare, per dire, potrebbero essere la A e la B: una alza e l’altra schiaccia. Il rapporto comico, il motivo della risata è il legame stesso che hanno le due lettere, ovvero il fatto di essere due entità astratte che separatamente hanno significati diversi e che combinate e ricombinate possono avere altri significati per indicare oggetti concreti o astratti. Il motivo comico è essere di collegamento tra mondi.

Avendo a disposizione molteplici lettere possiamo indicare e verbalizzare quasi tutta la nostra conoscenza; dico quasi perché spesso patiamo la difficoltà di comunicare qualcosa che non sappiamo identificare: ma non sappiamo identificarlo perché ci mancano le parole o perché le parole che abbiamo sono inadatte o perché è qualcosa di totalmente nuovo?

Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere.1

Come sassi nello stagno, le parole si allargano e trascinano con sé altre paia di maniche, anzi, paia su paia di maniche, camicie, vestiti, giacconi e calzini, al punto che ci ritroviamo in pieno agosto con quattro o cinque strati di abiti addosso senza sapere come mai. E capiamo di essere completamente fuori stagione solo quando iniziamo a sudare, quando ci sentiamo a disagio e senza i vestiti adatti (o le parole?) per l’occasione.

E dopo le parole (o i vestiti), nostre forme di tecnologia primaria, arrivano i manufatti e gli oggetti con i quali modelliamo il mondo in nostra funzione: ma anche qui, se non siamo in grado di padroneggiarli, rischiamo di sentirci inadatti o di combinare pasticci. Ritengo che l’inadeguatezza abbia una doppia formulazione: la prima, che potremmo chiamare analfabetismo, è quella di chi non è padrone degli strumenti (le parole, la tecnologia, i sentimenti), la seconda è quella di chi, involontariamente, sta costruendo un mondo tagliando fuori se stesso, mettendosi nella posizione di essere inadeguato o superfluo, rendendosi in qualche modo analfabeta. Può sembrare assurdo, ma più ci affidiamo alle macchine più tagliamo fuori noi stessi o i nostri simili.

L’idea che esista qualcuno o qualcosa a nostra disposizione che lavori per noi e che ci permetta di godere del nostro tempo esiste da quando esiste l’uomo: è sufficiente pensare alla schiavitù e al soggiogamento di intere schiere o generazioni di umanità per capirlo. Quello che forse risulta meno chiaro è perché abbiamo pensato che un mondo altamente tecnologico e quindi complesso potesse migliorarci e semplificarci la vita; è questa forse la grande contraddizione che causa molti problemi: non può esistere un miglioramento di vita collettivo se non capiamo la portata della complessità che abbiamo creato e se continuiamo a produrne solo per assaporarne il gusto e il soldo. Abbiamo ora la necessità di rallentare, tutto quanto ci impone di andare più piano, a partire dal clima che è il caso di inserire tra le nostre priorità prima che sia troppo tardi. Ma rallentare diventa necessario soprattutto per permettere agli altri di raggiungerci, per portare al nostro livello chi è rimasto (o è nato) indietro affinché nuove risorse e nuovi spunti emergano.

“Tutti gli usi della parola a tutti” mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.2

E il guadagno non è solo per chi insegue, anzi. Esistono innumerevoli esempi che permettono di capire che a trarre vantaggio sono tutte le parti coinvolte. Molto banalmente già solo l’abbattimento delle barriere architettoniche rende più accessibile un luogo non solo per i disabili, ma pure per i genitori con i passeggini e per i corrieri con i carrelli. Perché allora genitori, fattorini e disabili non si alleano per ottenere più edifici accessibili?  E i sottotitoli a teatro o al cinema per i sordi rendono più comprensibile un’opera solo per chi ha strettamente bisogno di quel servizio o per chiunque? Se nella progettazione di un evento o di un edificio si tiene conto delle esigenze di tutti, spesso le ricadute positive sono di gran lunga maggiori rispetto a quelle preventivate. Allora forse ragionare in modo enciclopedico e onnicomprensivo aiuta a non lasciare indietro nessuno e se non lasciamo indietro nessuno, oltre a sentirci meglio con noi stessi, abbiamo la possibilità di costruire nuovi mondi, nuovi immaginari e nuovi romanzi collettivi.

In questo percorso la tecnologia può essere di grande aiuto, a patto che non sia calata dall’alto, che non sia come le scarpette rosse della fiaba di Hans Christian Andersen, ovvero quell’oggetto magico e maledetto che ci costringe a ballare, ballare e ballare fino a tagliarci i piedi perché non sappiamo più come fermarci. Piuttosto – per questo l’open source è un’ottima risorsa – la tecnologia va condivisa e resa disponibile fin dalle fasi della progettazione, per mettere insieme più intenti possibili. La portata dell’insegnamento sta anche in questo, nell’offrire i mezzi adatti per partecipare alla progettazione degli strumenti che ci aiuteranno a modellare il mondo.

La domanda che sta a titolo di questo post prevede una risposta molto semplice: non era quello il suo compito. Ma, escludendo ogni riflessione teologica, l’intento celato è semplicemente quello di aprire una riflessione su noi stessi: perché siamo sempre in attesa che accada qualcosa di salvifico che risolva i problemi? Perché, quando si tratta di tecnologia, viviamo l’uscita di una nuova applicazione o un nuovo gadget come qualcosa di miracoloso per noi stessi? Probabilmente perché la rete, per come viene intesa comunemente, crea tanti piccoli centri, tante piccole nicchie che per la propria sopravvivenza hanno bisogno di rimanere tali e mettersi in posizione conflittuale con le altre. Il riflesso di questo problema è di fatto la mancanza di aggregazione e di voglia di mettersi insieme per ottenere miglioramenti collettivi, di “sindacalizzarsi e mandare a fanculo”, di aspettare affinché altri ci raggiungano per proseguire insieme.


1 2 Gianni Rodari, La grammatica della fantasia, Einaudi Ragazzi, p. 10-11.


 Scritto da Edoardo Faletti | @edofale